PROGETTO EFFE

Intervista a Mauro Boano socio fondatore de “Il Gabbiano”

DON ANGELO: AMICO COMPAGNO E

PUNTO DI RIFERIMENTO PER TUTTI

Uomo e pastore semplice nei modi e profondo nel pensiero

 

a cura di Marco Caramagna

Riprendiamo, dopo la pausa estiva, la pubblicazione delle interviste ai protagonisti della nascita de “Il Gabbiano”. E ogni volta, al di là delle esperienze individuali, scopriamo nuovi e profondi sentimenti del prete e dell’uomo don Angelo.

Mauro Boano, 64 anni, è nato ad Alessandria. Sposato con Albina, ha due figli, Emma e Pietro.

La sua prima significativa esperienza professionale si è maturata a Il Gabbiano, di cui è stato socio fondatore insieme ad Angelo Campora. La successiva esperienza è stata maturata nel Gruppo Guala, a decorrere dal 1991, dove è entrato, da prima, come Responsabile della Selezione e della Valutazione del Personale.

Nel 1996 diventa Direttore Risorse Umane per gli Stabilimenti Italiani. Dal 1998, diventa Direttore Risorse Umane per tutti gli stabilimenti world wide del Gruppo Guala Closures, che conta ad oggi più di trenta sedi produttive nel mondo. Il suo incarico era alle dirette dipendenze del Presidente ed Amministratore Delegato, presso la Holding di Milano.  Dopo un periodo di consulenza, successivo al suo pensionamento, nel 2022 decide di ritirarsi dal lavoro a far data dal 1° Maggio (la scelta della data non è stata casuale).

Quando e come hai conosciuto Angelo Campora?

 

Avevo poco più di vent’anni. In quel periodo avevo conosciuto alcuni amici del quartiere Pista. Io vivevo allora in una zona differente di Alessandria, nel quartiere Cristo. Insieme a loro mi sono ritrovato a frequentare i locali della parrocchia della Madonna del Suffragio, dove Angelo, in quel tempo, era vice parroco. Alcuni di loro (Sandra Gazzani, Claudio Cervero, Sandro Dimenza, Paolo Bellotti) sapevo che avevano da poco avviato con Don Angelo una esperienza di volontariato presso il carcere minorile di Bosco Marengo. Ricordo, dalle loro parole, che un forte impulso a questa iniziativa, fu un viaggio a Taizè, fatto con Angelo nel ’78. Fu così che mi aggregai a loro e che ebbi modo di conoscere Angelo.

 

 

Come è avvenuta la scelta di collaborare con il progetto?

 

In quel periodo, non avevamo un vero e proprio “progetto”. Era più che altro una iniziativa, ispirata dal desiderio di dare un nostro contributo di presenza e confronto con i ragazzi ospiti della struttura. Un modo direi semplice e spontaneo di vivere una esperienza di volontariato, a confronto con ragazzi in condizione di difficoltà. In quel periodo ci si recava in carcere per un paio d’ore, nei pomeriggi del venerdì. Si organizzavano tornei di bigliardino e/o di calcetto.

Ciò che contribuì a fare la differenza, fu una progressiva crescita di consapevolezza sui temi della devianza. Va detto infatti  che il contesto in cui noi ci attivavamo, era ricco di forti suggestioni. La condizione di forte soggezione psicologica ed anche fisica determinata dalla struttura carceraria nei confronti dei giovani detenuti era palpabile. Ma soprattutto, gli ospiti del carcere erano portatori di esperienze estreme. Non si trattava di semplici furtarelli o di comportamenti di resistenza o minaccia alle forze dell’ordine. Erano stati protagonisti di violenze estreme ed omicidi, perpetuati nei confronti di coetanei ed anche di famigliari, a scopo di furto e non solo. Ed allora, come interpretare quegli accadimenti? Come elaborare al nostro interno, il senso di ripulsa e disapprovazione per i loro reati? Che valore dare alla nostra presenza in carcere? Ed ancora, come è stato possibile che quei ragazzi, con i quali trascorrevamo del tempo a ridere, giocare, parlare, ricordare, condividere emozioni e sentimenti, così come si fa normalmente fuori dal carcere, nelle relazioni amicali, si trovassero li e si fossero trovati nelle condizioni di commettere tali reati? Questi sentimenti, a quel tempo non lo sapevamo ancora, avrebbero da lì a poco creato le premesse per sviluppare una coscienza sociale che, poco alla volta, ma solo più avanti, si trasformò in progetto. E su questa crescita fu determinante la guida di Don Angelo che non era solo cappellano del carcere, ma, a tutti gli effetti, era componente, parte attiva ed ispiratore di questo sparuto gruppo di giovani volontari. Tra noi avevamo incontri periodici di confronto, non solo utili alla programmazione delle attività, ma soprattutto di crescita e di elaborazione sui temi della devianza e sulle condizioni sociali che, come tali, concorrevano a far emergere le dinamiche di devianza.

 

 

Qual è stato il tuo impegno nel progetto di Don Angelo Campora?

 

Va detto che per i primi anni, il nostro contributo tra noi fu indistinto, districandosi prevalentemente sugli aspetti organizzativi e di programmazione delle visite in carcere. Le cose cominciarono ad accrescere, sia sul piano della nostra responsabilizzazione e sia sugli impegni, da quando, una volta accreditati all’interno della struttura carceraria e riconosciuti dal Ministero di Grazia e Giustizia, ci fu consentito di organizzare e gestire progetti alternativi alla detenzione. In pratica, nei casi in cui vi era compatibilità con il procedere del programma di detenzione, ed ovviamente con le autorizzazioni del Tribunale dei Minori, noi ci attivavamo per cercare e per seguire direttamente, misure alternative alla carcerazione a favore dei giovani detenuti (ad esempio,  opportunità di lavoro esterno o di semi-libertà).

Questo ha coinciso con un ulteriore e determinante passo in avanti, nella nostra crescita di consapevolezza: èmaturavamo il principio secondo il quale vi sono responsabilità sociali che favoriscono la condizione della devianza e che, per questo motivo, non vi è soluzione alcuna se la società non si attiva con progetti di recupero e di inclusione, attraverso l’attivazione di una rete di attenzione e di solidarietà costruttiva ed efficace, che vada oltre all’approccio puramente caritatevole o punitivo, e che riconosca a ciascuno la propria individualità e la propria dignità di essere umano. Li, abbiamo raggiunto consapevolezza che stavamo avviando concretamente un progetto di POLITICA SOCIALE. Da li in avanti fu un percorso a crescere. Per quanto riguarda il mio personale contributo, questo mi ha visto come volontario da prima, poi come socio fondatore della Cooperativa Il Gabbiano, per la quale ho fatto parte da subito e fino alla mia uscita, del Consiglio di Amministrazione e, per lunghi anni, come educatore professionale. Va detto però che, a dispetto degli incarichi svolti, noi avevamo scelto di mantenere le prerogative di un gruppo di volontariato. Questo non significa che non si fosse tenuta in debita considerazione il tema della professionalità e degli strumenti di competenza indispensabili per intervenire sui minori e per definirne i progetti educativi, ma lo spirito di condivisione confronto e crescita rimaneva lo stesso iniziale. In ultimo, va ricordato che con il passare degli anni il nostro Gruppo era numericamente cresciuto in misura significativa e le periodiche riunioni di coordinamento, normalmente organizzate con percorsi tematici, potevano trarre giovamento dal contributo di numerose figure presenti sul territorio, dando così nuovo impulso e suggestioni per i progetti a venire.

 

 

Quali obiettivi avete raggiunto?

 

Direi che ciò che è successo da lì in poi è stata una naturale elaborazione e messa in pratica di idee e di progetti. Era come se negli anni precedenti, avessimo inconsapevolmente gettato e curato i semi per un raccolto, i cui frutti sarebbero arrivati a maturazione solo dopo, ma con naturale ed indomita progressione. Le fasi, storiche e, per così dire, evolutive della nostra crescita, erano concatenate tra loro, ed era come se rappresentassero una sequenza di gradini, che oltre a consolidare i risultati ottenuti, ci conferivano nuova linfa.

Sul piano delle iniziative, siamo passati dagli interventi alternativi alla detenzione, all’avvio delle diverse comunità per minori, alla creazione della Educativa Territoriale (intervento di sostegno ai minori in difficoltà, che si articolava sul territorio nel corso delle ore diurne e con progetti mirati, senza prevedere necessariamente il ricorso ad interventi residenziali), al progetto in convenzione sulle tossicodipendenze, ai vari doposcuola, ai progetti distribuiti sul territorio come il punto D,  la legatoria, i numerosi centri estivi  ecc..

Sul piano della evoluzione dei contenuti, siamo passati da un embrionale intervento di presenza e ricreazione in carcere, per arrivare alla scelta di portare fuori dalle mura del carcere i giovani detenuti ridando valore al tema dell’inclusione e della corresponsabilità, per arrivare a concepire l’importanza della prevenzione sociale, e fino ad arrivare alla necessità di farsi portatori di un cartello di POLITICA SOCIALE a favore degli ultimi.

Sul piano degli ambiti di disagio, abbiamo lavorato a favore dei detenuti, dei minori a rischio, nell’ambito della tossicodipendenza, sulle dinamiche del disagio sociale in genere, ed ancora nell’handicap.

 

 

La scelta di cambiare completamente vita professionale perchè è avvenuta?

 

Sul piano professionale, sono state due le scelte fondamentali che hanno caratterizzato il mio percorso. La prima, fatta nell’84, a favore de Il Gabbiano. In quel periodo, in ragione della mia passione per le tecniche di fotografia, avevo una occupazione come fotolito a “Il Piccolo”. Il lavoro mi piaceva e coniugava la mia passione per la fotografia, con le tecnologie di ripresa applicate alla stampa litografica e a rotocalco. Tornando però al volontariato in carcere, quando, dopo qualche anno di impegno, decidemmo di fare un balzo in avanti nel nostro percorso, con un progetto concreto di prevenzione sul territorio, decisi di licenziarmi da Il Piccolo, per dare il mio contributo come educatore all’avvio del nostro progetto di comunità per minori. Non era una scelta priva di rischi. Allora il progetto prevedeva di sviluppare la comunità in una struttura in quel di Lobbi, dove Angelo nel frattempo era diventato Parroco. Non avevamo risorse economiche, ma eravamo fiduciosi che saremmo riusciti ad ottenere fondi attraverso donazioni e sostegni caritatevoli da soggetti privati o da qualche fondazione, anche in quanto avevamo sviluppato un progetto ben strutturato sia sul piano organizzativo e sia sul piano della gestione dei contenuti e dei rapporti con i servizi sociali di territorio. Questo primo nucleo di educatori era formato da Sandra Gazzani, Paolo Bellotti, Laura Franchino, Viviana Zarri ed io. Eravamo, per così dire, motivati e pronti a correre il rischio. Non sapevamo che da lì a poco, attraverso un occasionale contatto avuto da Sandra con i sevizio sociali, si sarebbero aperte le condizioni per avviare il progetto in convenzione con il Servizio Pubblico, togliendoci ogni difficoltà di tipo economico ed avviando così la comunità di Villa Borsalino.

La seconda scelta l’ho fatta nel ’91, sette anni dopo, decidendo di lasciare il mio lavoro a Il Gabbiano, per accettare l’offerta da parte della Guala, nella struttura del Servizio Personale. Le ragioni erano molteplici. La prima era che sentivo la necessità di maturare nuove competenze in ambiti diversi. Una sorta di necessità di arricchimento professionale. La seconda era che l’offerta ricevuta, che pure non avevo cercato, era difficile da rifiutare, sia per i contenuti dell’incarico e sia per la realtà di tutto rispetto, dalla quale proveniva. Va aggiunto che Angelo era mancato da qualche anno ma la sua assenza era ancora palpabile al nostro interno e nei nostri animi. In ultimo, percepivo che le cose stavano cambiando nell’ambito del privato sociale. La nostra esperienza fatta di molti anni di sfide, coraggio e crescita, alla ricerca di una qualità dell’impegno rivolto a favore degli ultimi, che si basava su professionalità e sana collaborazione con le istituzioni pubbliche, stava segnando il passo, a favore di un opportunismo politico da parte degli interlocutori delle Amministrazioni Pubbliche, che sempre più era ispirato a logiche di bandiera. Purtroppo le mie sensazioni si avverarono tanto è vero che nel ’94 perdemmo l’appalto per la gestione della storica comunità di Villa Borsalino, che rappresentava per noi molto di più di una struttura.

Sul piano personale non rimpiango nessuna delle due scelte. La prima, quella in qualità di educatore al Il Gabbiano, ha rappresentato per me una stagione di crescita sul piano professionale ed umano che non ha eguali e che mi accompagna tutt’ora. La seconda, quella fatta in Guala, mi ha dato moltissimo sul piano della crescita delle competenze portandomi pochi anni dopo, al vertice della Funzione del Personale per gli stabilimenti Italiani e successivamente, a decorrere dal ’98, ad aggiungere a questa, la Direzione del Personale per tutti gli stabilimenti Italia ed Estero del Gruppo, che ad oggi sono più di trenta. Ho lasciato tale incarico pochi mesi or sono, a maggio scorso, dopo un periodo di consulenza protrattosi a seguito del mio pensionamento.

 

 

Cosa ha lasciato dentro di te l’esperienza con Don Angelo?

 

Senza alcun dubbio, l’incontro con Angelo è stato per me determinante. Ancora oggi mi sento di dire che Angelo è stato ed è tutt’ora uno dei fondamentali riferimenti della mia vita. L’esperienza a Il Gabbiano è stata molto intensa soprattutto grazie alla sua guida ed alla sua presenza. Lui sapeva essere nel contempo amico, compagno e punto di riferimento per tutti. Intorno a lui si creava naturalmente una intensa partecipazione positiva. Nessuno riusciva a resistere alla forza attrattiva di quest’uomo. Riusciva ad esprimere semplicità nei modi, genuinità, profondità di pensiero, grande energia, determinazione e rispetto assoluto per ogni suo interlocutore. Era chiara la sua naturale fiducia nell’essere umano. Ed era tale la sensazione di onestà che emanava, da rendere irresistibile ogni sua richiesta di aiuto. Lui era realmente un vero pastore. Da lui ho imparato ad avere fiducia nel poter raggiungere le cose impossibili ed ho imparato che quando le circostanze, in qualunque modo si vengano a determinare, ci consentono di mettere in gioco la parte migliore di ognuno di noi, allora si riesce a superare ogni ostacolo.  La stessa storia de Il Gabbiano, letta e rivista ancora oggi, dopo tanti anni, sembra una storia incredibile, per la sua evoluzione e per la qualità dei risultati raggiunti. Ebbene io so che sono state le sue doti di profonda umanità e fiducia, che ci hanno costantemente fatto da guida in quegli anni e che hanno determinato le condizioni per il successo, consentendoci di mettere in gioco la nostra parte migliore. Anche nei momenti difficili (al nostro interno trovavano espressione personalità spiccate e non sempre vi era immediata convergenza di opinioni), lui sapeva ricondurre il tutto a quei fondamentali nei quali tutti ci riconoscevamo ed allora, le questioni di metodo e le incomprensioni sul “come”, venivano superate.

Ho tanti toccanti ricordi con lui, ma uno in particolare mi piace ricordare. Brunella e Piero si erano sposati da poco e chiesero così ad Angelo di benedire la loro casa. Erano i primi anni di impegno nel gruppo. In quella occasione, io fui invitato, insieme ad altri pochi amici. E così fu benedetta la casa e si recitarono alcune preghiere. Io, che non ho ricevuto una educazione religiosa, in quel frangente mi misi un po' in disparte, non senza un poco di disagio. Quando finimmo, sentii l’esigenza di parlare con Angelo e di spiegargli il mio stato d’animo. Ebbene lui, con uno sguardo intenso e genuino, con quegli occhi chiari che sembrava stessero leggendo nell’intimità del mio cuore, mi disse: ” Mauro non devi preoccuparti per questo. Non sentirti a disagio. Tu sei un uomo di fede, per ciò che sei, e sei un uomo di fede per ciò che fai. E’ questo che conta”. Io sentii una grande emozione per la semplicità e, nel contempo, per la profondità di quelle parole. Fui veramente toccato. Ebbene, da allora, io ho cominciato a fare il segno della croce e, ancora oggi, ogni volta che lo faccio, sento Angelo vicino a me.

 

 

 

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Supplemento a "Pagine Azzurre" - Direttore Responsabile Marco Caramagna - Aut. Trib. Alessandria n. 30 del 18/11/2014